Giuliana Musso, autrice di rara sensibilità e attrice di grande talento interpretativo, con “La fabbrica dei preti” attribuisce un atto di rispetto, solidarietà e condivisione dedicato ai ragazzi di allora, usciti dai Seminari negli anni del Concilio Vaticano II (1962–1965): un momento fondamentale nella storia della Chiesa, chiamata a fare i conti con una società in cambiamento e lacerata fra volontà di dialogo e ostinata chiusura. Giuliana Musso disegna efficacemente – senza sostenere ideologie, ma puntando sul lato umano della questione – l’epoca e le correnti interne al clero di allora, fra un Papa Giovanni XXIII che nel suo indimenticabile “discorso della luna” invitava genitori a dare una carezza ai loro bambini e dire che quella era “la carezza del papa” uno schieramento opposto, che in quel gesto così umano vedeva un pericoloso indebolimento della torre d’avorio nella quale la Chiesa doveva arroccarsi. Molto cambiò, dopo quel Concilio. Molto altro no, negato o non affrontato. E nel mezzo c’erano loro, una generazione di ragazzi che impararono a dire la messa in latino e si ritrovarono a celebrarla in italiano, che furono educati a isolarsi dal mondo e da se stessi e con il mondo e con se stessi dovettero fare i conti. Sul sipario poche cose: una serie di pannelli bianchi sui qualivengono proiettate foto d’epoca e, appesi di lato, una tonaca, un abito da sposo, una tuta da lavoro, simboli delle parti che compongono l’uomoprete, quello negato dal sistema educativo annichilente dell’epoca. Brani tratti dai regolamenti dei Seminari, letti con voce neutra dalla Musso, parlano da soli, rivelando oggi le storture di un sistema che sarebbe comico se non fosse profondamente tragico. Tra l’uno e l’altro, tra foto e canzoni di grande intensità, tre figure di preti si stagliano potenti, costruite dalla Musso attraverso testimonianze reali.